Per riuscire ad affrontare questo tema, abbiamo bisogno di capire che cosa è la complessità e perché facciamo così fatica a gestirla, quindi dobbiamo partire da un po’ di teoria.

Mi perdonerete la digressione, spero: io credo che questo vada affrontato all’indietro nel tempo, abbracciando un periodo di almeno tre secoli. I secoli che ci hanno donato determinismo e riduzionismo. Mi rendo conto che sembra molto astratto, ma se avrete la pazienza di seguirmi cercheremo di trovare ricadute pratiche in meno di cinque minuti.

Da diverse centinaia d’anni stiamo scoprendo la potenza di scomporre i fenomeni in piccoli pezzi, analizzarli uno per uno, scoprire le leggi che li regolano e rimettere insieme i pezzi per capire (e influenzare) questi fenomeni. Scomporre le cose va, filosoficamente, sotto il nome di riduzionismo. La convinzione che tutto sia regolato da leggi (matematicamente descrivibili) e che noi piano piano saremo in grado di conoscerle tutte va sotto il nome di determinismo.

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Questo approccio ci ha regalato avanzamenti (scientifici, culturali, tecnologici) meravigliosi: abbiamo scomposto la materia in atomi e creato il concetto moderno di chimica, abbiamo capito la natura delle particelle che si muovono nel metallo e capito (e matematizzato in modo mirabile) i fenomeni elettrici, abbiamo creato motori (a vapore, a scoppio, elettrici), abbiamo capito cos’è un batterio o un virus e combattuto le infezioni e le epidemie, abbiamo fatto a pezzi (letteralmente) il corpo umano e siamo ormai in grado di sostituirne ampie porzioni garantendo la sopravvivenza di chi ha, per esempio, un cuore che non funziona più, eccetera eccetera eccetera.

Questo approccio ci ha però anche portato ad autoconvincerci che il mondo è perfettamente spiegabile, assiomatizzabile, prevedibile e gestibile. E’ passato quasi un secolo da quando questo mito si è dimostrato falso (parleremo dell’epoca del caos in un post dedicato) ma ancora non siamo riusciti ad accettare questo fatto. In un’epoca in cui tutto è gestito i problemi che non domiamo ci sembrano insormontabili, soprattutto perché abbiamo perso la capacità di affrontare l’ignoto, di accettare l’imponderabile. Di nuovo: questo sembra astratto ma ha conseguenze reali e pesanti. Ne cito qui solo alcune, rimandando a dei post appositi per approfondirle.

  1. Esempio 1: la finanza. Ci sono innumerevoli libri, corsi, istituti che si concentrano sulle previsioni in campo finanziario. Montagne di stime ci dicono quale sarà il PIL del prossimo anno. Sono ragionevolmente in grado di avvicinarsi alla verità nel breve periodo e nei momenti tranquilli, cioè quando sono poco utili. Ma non era stato previsto che gli algoritmi sottostanti ai derivati avrebbero creato una finanziarizzazione patologica dell’economia. O che i mutui subprime avrebbero trascinato l’economia mondiale in una crisi tale. Quindi il mondo finanziario è di fatto incontrollabile ed imprevedibile nelle sue manifestazioni più importanti, nonostante la mole di studio che su di lui si riversa
  2. Esempio 2: l’analisi dei rischi. Esiste una tendenza sempre più forte a cercare formule per gestire in maniera oggettiva l’analisi dei rischi. Tutte formule che cercano di decidere cosa fare per controllare il futuro a partire dall’analisi della storia passata. Ma se questo è utile per la gestione dei rischi fisiologici (tutti quei rischi con conseguenze gestibili e probabilità alte di accadere, per esempio il rischio di difettosità in una linea produttiva) è assolutamente fuori target per i rischi patologici (mutuando dal libro “Antifragile”: l’analisi dei rischi della centrale nucleare di Fukishima non ha considerato l’ipotesi di un terremoto come quello avvenuto, perché non si era mai verificato prima)
  3. Esempio 3: il project management. L’approccio da “mania del controllo” ci ha regalato un sistema di project management che pretende di risolvere tutte le problematiche attraverso l’iperprogettazione iniziale (che spesso si condensa in un GANTT, strumento che ingabbia i progetti e li soffoca). Spessissimo (il risultato dipende ovviamente dalle capacità del project manager, ma gli strumenti cercano di portarci in quella direzione) i progetti falliscono perché manca la flessibilità di accettare che quanto si era previsto non si avvera, che dobbiamo rivedere le decisioni prese, abbandonare alcuni obiettivi, rivederne altri, cogliere opportunità impreviste. Torneremo ad affrontare il tema parlando di Agile Project Management in un post dedicato.

Gli esempi potrebbero essere moltissimi altri (dalla pianificazione della produzione di una azienda manifatturiera alla capacità di delega della direzione di una organizzazione, dalla gestione di un team di lavoro al concetto stesso di “Ricerca e Sviluppo“, dalla pretesa di trattare il comportamento e la mente umana in modalità medica come se fosse un insieme di ghiandole che non producono più il loro ormone a moltissime altre situazioni) ma il concetto di fondo rimane lo stesso: ci sono aree del mondo che abbiamo compreso e siamo in grado di gestire in modo scientifico e programmatico. Ma sono molte meno di quelle che ci piacerebbe pensare e anche su quelle abbiamo una conoscenza “a macchie di leopardo”. Su tutte le altre dobbiamo essere in grado di accettare la complessità, di accettare che dobbiamo utilizzare degli strumenti diversi, perché continuare ad avvitare un chiodo o a martellare una vite non ci può portare nulla di buono.

In questo primo post abbiamo scalfito la superficie della questione, nei prossimi – per chi avrà la voglia di seguirli – entreremo nel dettaglio e discuteremo anche di strumenti pratici per affrontare, gestire e, possibilmente, mettere sotto ragionevole controllo la complessità aziendale.

Questo articolo fa parte di una serie che il dott. Luca Diracca ha pubblicato su Linkedin: se vuoi leggere anche gli altri ti basterà seguire i link inseriti nel testo